Il ministro della Cultura Alessandro Giuli ha sfoggiato un monologo infarcito di filosofia, confondendo Hegel e riempiendo l’audizione in commissione di frasi vuote. Tra citazioni sbagliate e concetti astratti, resta il vuoto di una reale visione per la cultura italiana.
Il discorso di Alessandro Giuli alla commissione Cultura della Camera non ha tardato a suscitare scalpore, non solo per il tono altisonante e filosofico, ma soprattutto per l’uso decisamente maldestro delle citazioni colte. Il ministro ha scelto di aprire con un riferimento ad Hegel, dichiarando che “la conoscenza è il proprio tempo appreso con il pensiero”, un modo per evocare l’idealismo tedesco e dare una patina di profondità al suo discorso. Tuttavia, persino questa citazione, che doveva rappresentare il fulcro del suo ragionamento, è risultata scivolosa e inappropriata, tanto che gli studiosi più attenti hanno notato un’involontaria distorsione del pensiero hegeliano.
Hegel, noto per la sua complessità e per la sua visione dialettica della storia, probabilmente si starà ancora “rivoltando nella tomba” a causa dell’approccio riduttivo di Giuli. Ridurre il pensiero hegeliano a uno slogan privo di contesto è una mossa che sminuisce non solo il filosofo, ma l’intera tradizione intellettuale di cui Hegel è stato uno dei massimi esponenti. Questo pasticcio filosofico si aggiunge al contesto già confuso del discorso, infarcito di termini astratti come “infosfera globale” e “apocalittismo difensivo”, che non fanno altro che mascherare l’assenza di una vera e propria proposta culturale.
Ma perché un ministro della Cultura decide di rimaneggiare in maniera così avventata un pensatore di tale portata? Il risultato è un monologo incomprensibile, che non solo non riesce a parlare ai problemi reali della cultura italiana, ma rischia di trasformare la politica culturale in un palcoscenico di autocompiacimento intellettuale. Invece di ispirare azioni concrete per sostenere gli artisti, i musei, le biblioteche e i teatri del nostro Paese, il povero Hegel è stato evocato come un feticcio intellettuale, citato per impressionare più che per comunicare qualcosa di significativo.
L’approccio di Giuli è stato talmente astratto che, anche tra i pochi che hanno cercato di difendere la sua performance, emerge una certa difficoltà a trovare risvolti pratici nelle sue parole. La citazione di concetti come “apocalittismo difensivo” e “entusiasmo passivo” per descrivere le sfide della cultura nell’era digitale è apparso scollegato dalla realtà quotidiana dei lavoratori e degli operatori culturali, che si confrontano con crisi economiche e tagli ai finanziamenti piuttosto che con filosofie astratte.
In sintesi, il discorso di Giuli è stato accolto come una dimostrazione di erudizione priva di sostanza pratica. L’impressione che lascia è di un ministro più interessato a fare sfoggio delle proprie conoscenze accademiche che a proporre soluzioni per affrontare le reali difficoltà del settore culturale italiano
L’incomprensibilità del discorso e il suo tono distaccato sono stati subito criticati, con molti che hanno paragonato la performance di Giuli a una vera e propria “supercazzola”. E, tra citazioni sbagliate e concetti teoretici gonfiati, resta il vuoto di una visione reale per il futuro della cultura in Italia.
Questo tipo di comunicazione non solo rischia di alienare l’opinione pubblica, ma svilisce anche il ruolo stesso della cultura, che dovrebbe essere inclusiva e comprensibile, non criptica e elitaria.