Culurgiones

RISTORATORE SARDO EXPAT, DI SARDEGNA HAI SOLO (PIÙ) LE INFRADITO

Recensione

Sardità
1/10
Materie prime
1/10
Accoglienza
1/10
Menu
1/10
Punteggio complessivo
1.0/10

Come assassinare l’isola nel tempo di un battito.

Contenuto altamente polemico. Poi non dite che non ho avvisato.

Vivo a Torino da quattro anni. Sono sarda. Ma sarda riscoperta, una volta lasciata l’isola. È proprio vero che per capire bisogna andarsene: allontanandomi dalla mia terra ne ho colto l’essenza e l’unicità. Della sua storia, cultura, en0gastronomia ma soprattutto della bellezza del suo popolo. Del mio popolo. Difficile sentirsi a casa, lontano da quella casa. E tando, eccomi qua: divorata da un filo perenne di tesa nostalgia mista a solitudine (in Sardegna non si è mai soli per davvero, lo capisci quando lo diventi).

Oggi cedo alla tentazione. Voglio mangiare sardo. Torino è un luogo perfetto per esplorare cucine di ogni tipo. Solitamente non vengono tradite. Ma probabilmente aspettavo questa città al varco. Davanti alla grande prova. E Vostro Onore, eccola, la pallottola fumante!

Prima periferia, tra un rigurgito di borghesia fagocitata da un pop che più pop non ce n’è. Quartiere non troppo croccante, ma ruspante al punto giusto. Penso: siamo in un luogo autentico, qui posso fare un colpaccio.

Entro fiduciosa. L’insegna, sovrastata dai Quattro Mori, promette una Sardegna in toto. Il nome del locale è qualcosa tipo “Sa Domu” o “Su Redentore” o bodalerie similari. Mi aspetto il profumo del mirto, la poesia del pane guttiau che si spezza in frammenti croccanti e libidinosi, un’ode al pecorino stagionato o il profumo di porcetto cotto lentamente fino a renderlo pura arte carnale.

Il primo incontro è con una signora poco sorridente, anzi direi piuttosto incazzosa. Corpo tascabile e nervosetto, capelli corti corti con ciuffo asimmetrico color ghiaccio. Lo sguardo è indurito anche da sopracciglia nere tatuate. Ha l’aria di essere il capo.

È ancora possibile pranzare?, chiedo, ostentando una finta premura (perchè son le 13.20 e il locale chiude alle 14.30, quindi…). Si guarda intorno come fanno quelli che si accertano di non aver testimoni, chiede in cucina se “c’è ancora qualcosa?” (mmm brutto segno) e, a risposta affermativa, con sguardo obliquo e tono affilato mi fa, lentamente, “P-r-e-g-o”, che mi si ficca tra gli occhi con un colpo secco. Ci sarà mica in sala la riunione di una frangia risorta dell’Anonima e la mia presenza non è gradita? Mhà. Un cameriere solerte mi accompagna al mio tavolo.

Nel tragitto l’occhio mi cade li, sulla lavagnetta con i piatti del giorno. Il cuore si crepa.

Tre primi, tre secondi, tre contorni. 12 euro. Dodicieuro. Robe tipo plin, vitello tonnato, acciughe al verde, carbonara, lasagne, scaloppine, cotoletta, patatine. Bla Bla Bla. Manca solo il bidone dell’umido. Non oso immaginare quell’olio stanco di frittura. Avrà raggiunto come minimo già i 150 mila chilometri. Dodici euro non li sostieni altrimenti.

Mi sento improvvisamente pervasa dal desiderio di fuggire imprecando in sassarese, a bozzi (a voce sostenuta). Ma ho fame e da lì ad un’ora ho un appuntamento a pochi passi. Fuori fa un freddo cane e minaccia neve. Dai, resisti, mi dico. Questo è di sicuro il pastone per gli avventori del quartiere che non hanno voglia di cucinare, per i mercatari che piazzano a pochi metri e non son di grandi pretese in pausa pranzo. Avranno un menu di sicuro fedele a ciò che promettono nell’insegna.

Il cameriere mi incalza per ordinare, non mi lascia il tempo di sfogliare, ma neppure di togliermi il cappotto e sedermi. Mi elenca nuovamente quel tripudio gastronomico da refettorio di galera.

 “Avete un piatto sardo?”, chiedo con voce sicura. Ed è lì che arriva il primo segnale del tradimento totale: “C’è da aspettare molto”, dice. MOLTO, ha detto.

L’espressione del cameriere non lascia dubbi. Non è il classico avviso che anticipa l’attesa di un piatto fatto con amore. È un monito, un avvertimento non così celato: “NON-CI-PRO-VA-RE-NEM-ME-NO”.

Ma io, dura come il granito di Berchidda, caparbia come il muflone e fiera come un pastore di Austis, insisto. A questo punto è sfida.

La disfatta culinaria: i culurgiones del Ponte di Brooklyn

Culurgiones, è tutto quello che è capace di proporre. Accetto, diauru!

Dato che devo attendere, mi prendo il tempo per guardarmi attorno. Il locale è diviso in due ambienti: il purgatorio e gli inferi. Per il Paradiso c’è da attendere.

La prima sala è uguale a mille altri ristoranti senza infamia e senza lode, ma ha le luci calde e i tavoli son apparecchiati con un minimo di decenza. Poi, un giorno, di sicuro hanno deciso di allargarsi, sfondando il muro e collegando quello che doveva essere il garage accanto e, senza troppo impegno, ci hanno schiaffato dentro degli arredi malconci. Qui le luci sono fredde e glaciale è l’ambiente, anche in termini di congelamento. La mis-en-place è degna di una stazione di servizio con cucina di Calcutta est.

I clienti del pranzo vengono tutti deportati in garage. Perché dobbiamo espiare qualche brutta colpa, di sicuro. Forse a pranzo non si ha il diritto di pretendere conforto e coccole.

Saremo in quindici, non di più, divisi in quattro o cinque tavoli. In un paio, uomini con abiti da lavoro che mangiano silenziosi. E poi la coppia accanto al mio è l’apoteosi del contrario: l’età è indefinibile, forse tra i sessanta e gli ottanta. Lei è magrissima, credo abbia lasciato i denti a casa, così pure per il gusto per gli abbinamenti. Sciatta ma ingioiellata. Lui è più curato, si piace un po’ ma trasmette decadenza. Se avessero le ciabatte ai piedi, non mi stupirei. Parlano di non so chi che andranno a trovare presto a New York, dove non vedono l’ora di riassaggiare non so quale piatto che gli è rimasto proprio nel cuore. Son disinvolti con il cameriere, sicuramente vengono spesso.

Aspetto i miei culurgiones. Perché se c’è una cosa che la Sardegna insegna, è che il tempo è parte del sapore. Aspetto e immagino: il ripieno, quella dolce alchimia di patata, pecorino e menta; la pasta, ricamata a mano con l’attenzione di chi sta cucendo un sogno.

Alla fine, il piatto arriva.

La scena di un crimine: quattro coglioncini rattrappiti, informi e martoriati, conditi con un gavettone di sugo. Rancido.

Unu raju chi ti falede!

Mi spingo oltre e li assaggio. La cingomma del ponte di Brooklyn la ricordo con più passione. Sono duri e immasticabili, non sanno di niente.

Avrei preferito me li avessero tirati addosso appena tolti dal congelatore, tipo sassaiola. Ne avrei apprezzato l’onestà.

L’ipocrisia

L’identità sarda non è un dettaglio estetico. Non bastano i Quattro Mori sull’insegna, una bottiglia di Cannonau o Ichnusa sullo scaffale e un paio di foto di nuraghi appese al muro.

La Sardegna è una terra che non si accontenta. Ogni piatto autentico porta con sé secoli di storie, di tradizioni, di sapori che non accettano compromessi. Eppure, qui, tutto si riduce a un nome svuotato di significato, un’etichetta messa lì per attirare clienti curiosi o ignari. Qui tutto è l’emblema della peggior cafonata e maleducazione che si, anche in Sardegna si trova. Ma addirittura esportarla, beh mi sembra davvero troppo.

Il Comitato della Sardità

A questo punto, la mia indignazione raggiunge livelli tali che comincio a immaginare soluzioni drastiche. Un pò di autoritarismo culinario, diauru! Difendiamo la terra dalla speculazione energetica ma anche dalla perculazione gastronomica: istituiamo il Comitato della Sardità.

Un’assemblea di anziane, custodi della tradizione e chef visionari, armati di grembiuli, mestoli, pattadesi e una determinazione feroce. Ogni ristorante che voglia fregiarsi del titolo di “sardo” dovrebbe affrontare un esame rigoroso, a metà tra interrogazione culturale e prova pratica. Un Comitato equamente rappresentato da esponenti meritevoli in rappresentanza delle varie zone geografiche della Sardegna:

Immaginate la scena.

Ziu Baroreddu “Su Nuraghe” Pischeddu

  • “Portat su binu, chi senza binu no si traballat!”

Tzia Mariuccia “Sa Culurgionesa” Piras

  • “Culurgiones no est raviolu, chi b’est sa differèntzia!”

Bobboreddu “Sa Bottarga” Marras

  • “A sa bottarga e a su contu, ci pensu deo!”

Tzia Antonia “Carasau” Nieddu

  • “Est carasau, no croccantelle!”

Gavineddu “Su Mirto” Angius

  • “Su mirto no est liquore, est meditzina!”

Ciprianeddu “Su Casu” Dettori

  • “Pocos, locos e casu tostu!”

Tzia Maria “Panada” Satta

  • “Sa panada est sa risposta a tottu.”

Ziu Bachischeddu “Su Cannonau” Serra

  • “Duos cannonau a sa die, meda salute in sa bidda!”

Tzia Pasca “Tunnu” Demuru

  • “No est Sushi”

E se non superi l’esame, niente Quattro Mori. Via ogni riferimento all’isola. Togli la bandiera e a ginocchia nude sui crasti, innorammara.

La Sardegna non è per tutti.

Cumpresu, m’asa?

*Note a margine: i piemontesi usano nell’italiano parlato un regionalismo difficilmente decodificatile se non si permane in terra sabauda a lungo: il più viene usato come quantificatore, come una particella che indica precisamente un numero definito di cose, persone, luoghi e via discorrendo. Per semplificare: la frase sono a corto di pacchi di pasta in dispensa, ne ho solo più uno si traduce in sono a corto di pacchi di pasta in dispensa, ne ho soltanto uno. Ecco perché al nostro ristoratore sardo piemontesino della Sardegna son rimaste solo più (soltanto) le infradito.

Fondatrice di comeilsale.it, sono una giornalista girovaga e food-victim. Adoro le storie, le cose autentiche e gli animali. Detesto molte altre cose detestabili e, di solito, lo nascondo poco. Per nulla, direi.

5 Comments

  1. Bellissimo articolo!
    Speravo che qualcuno lo facesse già da tempo..vivendo in Germania mi accorgo quanti ristoratori si TRAVESTONO da sardi nella speranza che i pesci abbocchino all’amo..io sono stata una di quei clienti che ci hanno provato,nella la speranza di sentire i sapori della tradizione culinaria sarda pur essendo lontana da casa, e invece..che delusione e che brutto colpo al cuore!
    Cuochi inprovvisati che si lodano della loro arte..ma che,invece, non rispecchia minimamente la cucina italiana, tanto meno quella sarda!!!
    Fate qualcosa..aiuto!

  2. E’ la sciatteria che dilaga, non è un problema esclusivamente sardo, ricordo che anni fa, al ritorno di una escursione al Gran Sasso, ci eravamo fermati a mangiare presso una trattoria “tipica” abruzzese in un paesino del teramano di cui non ricordo il nome. Il cameriere che ci illustrava il menu ci spiegava che l’amatriciana veniva preparata “amodonostro”, e alla richiesta di conoscere quale fosse il segreto, ci confessava: aggiungiamo la panna! A posto.

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