Quando il linguaggio diventa lama: propaganda, violenza verbale e il pericolo per il futuro democratico
L’era della ferocia comunicativa: apriamo le finestre, l’aria è irrespirabile.
Immaginate una stanza con finestre sigillate, satura di aria immobile, irrespirabile. Un puzzo tremendo. Questa è la ferocia comunicativa che non lascia spazio al pensiero ma sconvolge, fino allo svenimento. È così che appaiono certe dichiarazioni politiche oggigiorno, non ultime quelle del sottosegretario Andrea Delmastro: parole che tolgono ossigeno, pronunciate con l’intento di annullare non solo il nemico, ma chiunque osi dissentire. Frasi come “i detenuti non devono respirare” non sono scivoloni, ma granate linguistiche lanciate con precisione, per creare fratture e reazioni.
La scena è questa: durante la presentazione delle nuove auto per il trasferimento dei detenuti al 41bis, Delmastro abbraccia un linguaggio che non ha nulla di casuale. È un codice, un modo di comunicare che serve non solo a impressionare, ma a scolpire una visione di mondo: brutale, senza crepe, dove la legge non è giustizia, ma punizione senza sconti. E in quel “non devono respirare” c’è tutto il peso di una comunicazione che si fa propaganda, un’arte consumata di polarizzazione.
Il cortocircuito del linguaggio
Ma cosa succede quando lo Stato, il baluardo della democrazia, inizia a parlare così? Succede che il linguaggio si trasforma da ponte a lama. Il confine tra giustizia e punizione nell’accezione più terribile del termine si sbiadisce, mentre chi ascolta non riflette, reagisce (spesso male, da una parte e dall’altra). Questo è il vero rischio: non discutere, non ragionare più, ma scegliere solo da che parte del muro stare, a prescindere.
Non è un caso che questa torsione della parola sia una tendenza globale. Negli Stati Uniti, Donald Trump ha trasformato Twitter in un campo di battaglia; oggi, Elon Musk con X sostiene e supporta questa strategia, amplificando contenuti che urlano, che dividono (ma ne abbiamo appena visto il risultato spiazzante). È un contagio, una pandemia di parole usate non per illuminare, ma per incendiare. E il fuoco è arrivato anche qui, dove la politica ormai preferisce lo slogan al pensiero, il colpo di scena al progetto, l’accusa feroce al lancio di una provocazione politica costruttiva pro-dibattito. Vi è spazio solo per la rissa. In tv come nelle piazze.
Un futuro che fa paura
Se continuiamo su questa strada, il futuro sarà sempre più popolato da inascoltabili monologhi gridati. Ogni parola diventerà un’arma, ogni conversazione un’arena. E mentre il rumore cresce, la democrazia si assottiglia, diventa fragile. La violenza verbale è il preludio di quella reale: lo sappiamo dalla storia, ma sembra che abbiamo deciso di dimenticarlo.
E allora ci si chiede: cosa resta del respiro del pensiero?
Resta la necessità di riprenderselo, di aprire le finestre in quella stanza chiusa. Di recuperare un linguaggio che sia anche ascolto, che abbia il coraggio di essere complesso, sfumato, umano.
Perché il vero rischio non è solo quello di abituarci alla ferocia, ma di smettere di accorgercene. E a quel punto, sarà davvero troppo tardi.